“Usi a camminare per erti e difficili sentieri questi montanari sono naturalmente forti e coraggiosi. Sono poi acutissimi d’ingegno, leali, cortesi, allegri ed ospitali”. (I. Cantù, 1837).
Sino all’inizio di questo secolo era di norma l’uso del Vü (voi) nel rivolgersi al proprio genitore. Ai figli maschi andavano in eredità i beni stabili perchè non finissero in mano ai forestieri.
La donna, anche se aveva in dote una vita faticosa, occupava un posto importante nella famiglia. Da lei dipendeva la fortuna o la rovina di una casa: “La dona la pö vess la fortüna o la rüina d’una cà”. La donna può essere la fortuna o la rovina di una casa).
Pochi erano i giocattoli a disposizione dei bambini, molta era, invece, l’inventiva. Si giocava nei prati e nei luoghi che più stuzzicavano la fantasia dei bambini. “Gh’era minga tant de andà a giugà” (non si poteva molto andare a giocare). Piuttosto si dava libero sfogo alla fantasia nel ricercare angolini lontani per nascondersi e “fà diventà mat” (far impazzire) chi doveva scovarli. Una sola partita di nascondino poteva durare tutta la serata.
“La Valle Varrone considerasi come facente parte della Valsassina ed è parzialmente conosciuta dagli alpinisti che vanno ad ascendere il sovrano dei monti comaschi, il Legnone. Ma da Introzzo in avanti ben pochi la percorrono.” (E. Brusoni, 1903).
“E la ginnastica dello spirito non è mille volte preferibile alla ginnastica del corpo? Anche quella si apprende viaggiando in montagna: poiché ginnastica spirituale è la pazienza con cui si tollera la fame, la sete, il caldo, il gelo, tutti i disagi insomma inevitabili in un viaggio sui monti.” (A. Stoppani, 1901).
La vita fra le quattro pareti domestiche scorreva con cadenze elementari allertate quasi sempre dalla scarsità cronica di cibo.
Tutti i capi di abbigliamento in fibre di canapa e lana erano confezionati dalle donne durante i mesi invernali.
Le piante femene (femmine) della canapa, seminata in aprile, venivano sradicate a fine luglio e poste a macerare, sotto l’azione della rugiada e della pioggia, su ripidi pendii per evitare lo stagnamento delle acque.
“Belle donne avrai già vedute quasi in ogni paese della valle… Biondi capelli ed occhi cilestri come le Olandesi; rubicondo volto e tondeggiante petto, dono dell’aria sottile; vivacità e cortesia negli atti, privilegio delle Italiane, sono i caratteri del bel sesso di questi luoghi”. (I. Cantù, 1837).
“Che cosa facessero gli emigranti nei periodi più antichi non si sa con precisione. Come d’altra parte gli Stati d’anime parrocchiali non offrono che scarsa messe di notizie sui lavori dei vari paesi…” (A. Borghi, 1981).
“Case nuove: le case dei fortunati reduci dalle lontane regioni dell’America col gruzzolo che assicura gli agi nel piccolo e desiderato paese natìo” (F. Magni, 1926).
Tanta era la devozione alla Madonna della Pietà che molte persone, prima di affrontare un viaggio che le avrebbe portate lontano alla ricerca di fortuna e di una vita migliore, si recavano al Santuario della Madonna della Pietà (Frazione Bondo) dove invocavano una benedizione particolare.
“La compagnia del Rosario di Mont’Introzzo pare essersi formata intorno al 1620, ma divenne meno importante di quella successivamente istituita all’altare del Carmine, voluta plebiscitariamente dagli abitanti dei tre paesi nel 1652”. (A. Borghi, 1981).
Le condizioni igieniche delle case erano pessime. Il liquame dei pozzi neri veniva usato come concime, talvolta sparso nei prati e negli orti dove solitamente i bambini giocavano con la terra per cui le uova degli ascaridi finivano inevitabilmente, assieme alla terra, nella bocca dei bambini. Il mal del grup (vermi) era quello che seminava più morti fra i bambini.
Chi rit de venerdì el piang de dumenega
Chi ride di venerdì piange di Domenica
Mei sta chilò provisori che andà de la fiss
Meglio qui provvisori (ma vivi) piuttosto che nell’aldilà per sempre
A lè peca dovè mori’ che nimparo une tucc i di’
E’ un peccato dover morire visto che tutti i giorni s’impara qualcosa.
“In alcuni orridi e pericolosi valloni… la superstizione locale vuole che siano condannate a vagare fino al dì del giudizio le anime di certi dannati. In fatti la visita di quei luoghi ha qualche cosa dell’Inferno dantesco”. (Dizionario Corografico dell’Italia, 1854).
Il giorno della Santa Croce (3 Maggio), si facevano le rogazioni e s’invocava la benedizione del prete per proteggere i campi dal cattivo tempo e perchè dessero un buon raccolto. In periodi di siccità si saliva tutti sul Legnoncino dove, nella Chiesetta di S. Sfirio, veniva celebrata una Messa per invocare l’acqua.
Un tempo la zona era infestata da orsi e lupi. “Le sue falde sono infeste da serpenti e i suoi boschi, i cavernosi suoi spechi da orsi e da lupi.” Lungo il “Sentiero dell’Orso”, alle falde del Monte Legnone, furono segnalati gli ultimi abbattimenti di lupi (1885) e di orsi (1874) ma l’orso della festa del Sole di Febbraio altro non era che il vecchio “Homo Salvadego”, un rude montanaro che girava per le valli coperto da una pelle di orso insegnando agli uomini le arti pratiche della sopravvivenza nell’ambiente ostile della montagna.
Il Santo, di cui si celebra tuttora la festa il 17 Agosto, appartiene al gruppo dei “Sette Fratelli” la cui leggenda si ritrova in diverse versioni e in molte località alpine. Tutte le storie hanno, però, in comune il fatto che questi fratelli scelsero di vivere in eremitaggio ma in località visibili per comunicare reciprocamente fra di loro con grandi fuochi.
Il mese di febbraio apriva le porte della primavera (sole di febbraio) e poneva fine all’inverno vissuto in completo isolamento. La festa ricordava il ciclo delle stagioni e la fiducia, di reminiscenza celtica, che le popolazioni delle montagne riponevano nella capacità del sole di cacciare i rigori e le ristrettezze dell’inverno.
Durante le feste, in quelle liturgiche come in quelle connesse alla vita agricola, la religiosità dei contadini si esprimeva in modo gioioso, con canti e processioni. Le tre ricorrenze del Natale, dell’Epifania e del Carnevale ponevano sul tappeto scenari diametralmente opposti: i primi due, religiosi (la manifestazione di Dio), l’ultimo, uno scenario con reminiscenze pagane. Tutte e tre le ricorrenze venivano celebrate con una rappresentazione scenica davvero suggestiva, soprattutto il Carnevale, con figuranti in costume.
Durante il Natale gli uomini tornavano dall’estero e vi rimanevamo per tutto il periodo onorando il detto: Denadal cui tö (il giorno di Natale coi tuoi). Ogni casa aveva un camino all’interno del quale si bruciavano rami di alloro e di ginepro per scaldare il Bambin Gesù.
Nella Pifanie i bambini appendevano al cammino la calza più lunga per ricevere più doni che, comunque, consistevano solo in dolciumi e qualche frutto afrute seche (frutta secca), aranz (arance), qualche mandarino, qualche torroncino
Fra tutte le feste la più attesa era quella della Pasqua poiché poneva termine alle limitazioni della Quaresima e poiché coincideva con la primavera. Si poteva finalmente ballare nei prati, conoscersi, sposarsi. Era questo, infatti, il periodo in cui avveniva il maggior numero di matrimoni.
Le feste erano molto sentite poiché rappresentavano forse una delle poche occasioni di ritrovarsi e di sdrammatizzare il duro retaggio delle giornate. Una di queste, 17 gennaio, era quella di Sant’Antonio, Patrono d’Introzzo. Nel corso della giornata era usanza benedire le bestie, cavalli e muli sul sagrato della Chiesa.
Nelle sere precedenti la festa si accendevano grandi falò in luoghi lontani dall’abitato. Si gareggiava nell’alimentare il falò più grosso e più a lungo.
Ogni anno, la prima domenica di luglio, un grande afflusso di persone giungeva da tutti i paesi della valle al Santuario della Madonna de Bund (Bondo, Vestreno). Dopo mezz’ora di cammino a piedi, le persone assolvevano alle funzioni religiose, baciavano la Reliquia della Madonna, portata dal Parroco dalla Chiesa di Vestreno; poi festeggiavano innalzando canti.
La Messa festiva, soprattutto quella delle dieci, era motivo d’incontro e parola. S’indugiava sul sagrato della chiesa e si sfoggiavano i costumi della valle. Durante i giorni feriali la messa era celebrata, invece, verso le quattro di mattina ma era frequentata, soprattutto, dalle donne e dalle persone anziane.
Ogni Chiesa vantava e vanta un buon numero di reliquie, riconosciute dall’Autorità ecclesiastica. I reliquiari erano di due i tipi: quelli “a baciare” e quelli “d’altare. Nel giorno della festa del Santo, nel corso della funzione pomeridiana, i fedeli sfilavano ad uno ad uno a basà le reliquie (baciare le reliquie) tenuta in mano dal Parroco.
“O viandante che tu sia, mormora Ave Maria,riprendi poi la via e accanto avrai la Vergine Maria”. I Gisö (cappellette) sono situati, soprattutto, ai lati delle strade di campagna, in mezzo ai prati, qualche volta anche nel centro del paese: sono piccole costruzioni in sasso che racchiudono statue e immagini dei Santi, soprattutto della Madonna.
Alla figura del Cardinale Carlo Borromeo in visita pastorale in vennero dedicate molte cappelline e fontanelle conosciute poi come “Acqua di San Carlo”.
Molti erano i Santi invocati in Valvarrone. ognuno aveva un proprio ruolo.
Sant’Antonio glorioso dammi la grazia di trovare il fidanzato
San Michele Arcangelo, padrone di tutti gli Angeli, fa maturare le castagne
San Rocco e San Sebastiano proteggevano dal contagio.
Sant’Anna veniva pregata dalle partorienti.
Sant’Apollonia veniva invocata da chi soffriva di mal di denti.
San Martino era il patrono dei lattiero-caseari.
Come in tutte le valli montane il culto dei morti aveva un ruolo importante nella memoria dei vivi. Nella giornata dei morti, i parenti, dopo aver officiato gli ufizi (gli uffici religiosi) alle dieci del mattino e fatta la Cumeniun (Comunione) in suffragio dei propri defunti, visitavano le tombe dei defunti e, alla sera, si radunavano in cucina per recitare tre rosari di seguito.
“Quello che più impressiona a prima vista è la collocazione dei vari centri abitati su uno dei più ingrati terreni che si possa mai immaginare, ancor più come una non piccola comunità abbia potuto resistere vittoriosamente su quella isolata costa montana per tanti secoli”. (A. Fumagalli, 1982).
“Lo spazio coltivo della Valvarrone si riduce a minuscole strisce di terra disposte nei tratti meno impervi del declivio montano che discende verso il torrente omonimo; si aggiungono vasti pascoli montani inframmezzati a boschi di castagne, prodotto essenzialmente per l’alimentazione di queste popolazioni.” (A. Fumagalli, 1982).
Il mese fondamentale per la preparazione dei campi era Aprile: “Avril al n’ha trente s’al piovess trent’un, al fa mal a nigün” (Aprile ha trenta giorni, se piovesse trentun giorni non farebbe male e nessuno).
Più oltre…“Di lontane tradizioni comunitarie sono rimasti segni fino a tempi recenti, il pascolo comune, «l’usenda» o rotazione di esso, il «past» sugli alpeggi ed altri incertissimi lacerti.”
Il percorso, che collega a mezza costa gli abitati di Sueglio e Introzzo, dispiega sul terreno un interessante sistema molitorio che sfruttava l’abbondanza di acque che scendevano dai monti. Si tratta di edifici diroccati (Mulini di Tremenico, Sueglio, Introzzo) ma che rivelano ancora oggi lo scheletro di un ingegnoso impianto di lavoro idraulico (ruote idrauliche, turbine idroelettriche, canaline in pietra, bacini di raccolta delle acque, paratìe, ponti di servizio).
Fra una oga (canale) e l’altra, in luoghi boschivi sui versanti senza pascoli o sull’ajal (piazzuola), veniva alzato il pojatt (carbonaia) per la produzione del carbone di legna.
“Al basso del monte vi sono praterie e fertili campi con gelsi e viti; indi salendo si trovano boschi di castani, seguono i pini e gli abeti, poi l’erba su cui nella stagione estiva pascolano le pecore e le camozze; indi la vetta, canuta per le nevi che in alcuni valloni scompaiono soltanto nelle stati più ardenti”. (Dizionario Corografico dell’Italia, Vol I, Lombardia, Milano, 1854).
I “Munt” erano delle piccole comunità di lavoro dove si sbarcava ol lunari (il lunario) lavorando il formaggio magro (bitto), la mascarpa ed i caprini. Diversamente a quanto avveniva nelle vicine vallate, le bestie della Valvarrone difficilmente venivano portate sugli alpeggi. La configurazione del terreno non era adatta, infatti, alla formazione dell’alpeggio; l’unico esistente era quello di Agrogno sopra Tremenico ove si spingevano soprattutto le pecore.
Le fontane e i lavatoi pubblici erano dislocati nei punti focali dei vecchi borghi medievali a suggello dei percorsi dell’acqua.
“Lungo la strada porrai mente ad alcune piante castanili di smisurata grossezza”. (I. Cantù, 1837). Per le castagne valeva il detto “Fiuride de macc, castegn a quacc, fiuride de giugn, castegn a pugn” (fiorita di maggi, castagne in gran quantità, fiorita di giugno, castagne a pugni).
Nelle latterie turnarie di Vestreno, Sueglio, Introzzo, Tremenico si lavorava il latte degli alpeggi, latte di vacca con il quale si preparava il büter (burro) in contenitori di legno con pistone (zangole) e il furmac (formaggio).
Per la caccia si impiegavano ingegnosi attrezzi per la cattura dei selvadech (animali selvatici) come la taiöla (tagliola) in ferro per animali di taglia grossa e gli archìt (archetti) in legno di nocciolo per quelli più piccoli.
Nel fiume Varrone si pescava la trüta de fiüm (trota di fiume) con la fiocina o col sibièl (rete con manico).
I roccoli erano delle strutture arboree per la cattura degli uccelli munite di un casello (torre), posto in capo al pergolato, in cui si nascondevano gli uccellatori. Il Roccolo di Artesso (mt. 1238) è stato trasformato dal 1996 in una stazione di inanellamento per lo studio dei movimenti migratori degli uccelli. I Roccoli Lorla (mt. 1450) furono costruiti nel 1816 da Domenico Lorla di Bellano. “La positura è bella quanto mai, dominandosi il versante valsassinese e il versante verso Colico. Ivi predetto Signor Lorla con due paretai coglieva al volo i numerosi stuoli d’uccelli di passaggio nella loro emigrazione da nord a sud”.
“Nel letto di questa valle, la quale sbocca a Dervio, vi sono miniere di ferro, di rame, di piombo, marmo bindellino e cipollino, ardesia regolare, e massi di granito di molta varietà”. (I. Cantù, 1837).
Nei primi anni del XX secolo (1907) la scoperta sul versante meridionale della valle di cave di feldspati, silicati di alluminio, sodio, calcio e potassio, allargò gli orizzonti dell’economia locale al servizio dell’industria del ferro lecchese e milanese.
La sponda orografica destra della Val Varrone è collegata alle bocche delle miniere, situate sulla sponda orografica sinistra della valle, da impianti a fune che trasportavano prodotti minerari ma anche maestranze (funivia di Tremenico).